Crediti
di Luigi Pirandello
regia Antonello Capodici
con Pippo Pattavina e Marianella Bargilli
musiche originali Mario Incudine
ABC Produzioni e ATA Carlentini

Scheda Spettacolo
Pubblicato nel 1925 a puntate, in versione definitiva l’anno dopo, ma iniziato nel decennio precedente, l’ultimo romanzo del Genio agrigentino è la summa del suo pensiero, della sua sterminata riflessione sull’Essere e sull’Apparire, sulla Società e l’Individuo, sulla Natura e la Forma. L’autore stesso, in una lettera autobiografica, lo definisce come il romanzo “più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”. Attualissimo, nella descrizione della perdita di senso che l’Uomo contemporaneo subisce a fronte del sovrabordare dei grandi sistemi antropologici e sociali, che finiscono con l’annullarlo, inglobandolo: dallo Stato alla Famiglia, dall’istituto del Matrimonio al Capitalismo, dalla Ragione alla Follia. La scena è abbacinante. Di un bianco perfetto, luminoso, totale. Una scatola bianca. Siamo in molti luoghi, cioè in nessuno. La mente del Protagonista, certo. Ma anche una cella, una stanza d’ospedale o di manicomio. Un luogo “non-luogo”, che però si riempie subito di visioni. Ecco, allora, che le pareti della scatola, risultano sì bianche, ma come calcinate. Su queste superfici proiettiamo dense pennellate che rimandano ai quadri/istallazione di Fausto Fiato o Elena Ciampi: diventano luminescenti. Irreali. Riverberano di colori acidi e contrasti. Via via, il monologo si trasforma in “piece” vera e propria. Da ampie aperture laterali (simili a saracinesche) carrellano in scena i vari ambienti. Insieme ai personaggi che li animano: la casa di Gegè, gli uffici della Banca, il Convento di Maria Rosa, la casa dei Di Dio, la stanza d’ospedale, la strada. I personaggi sono grotteschi, iperrealistici: Firbo, Quantorzo, Dida, Maria Rosa, il Padre, Marco Di Dio e Diamante, il Notaio Stampa, Padre Sclepis, il Giudice, il Suocero. L’eleganza formale di un Maestro come Pippo Pattavina: spensierato narratore in flash-back. Furente doppio di sé stesso nelle vicende più dolorose. In questo auto-sostituirsi, c’è persino il possibile riscatto all’impotenza originaria, all’inanità di una esistenza precedente, inconsapevolmente sprecata. E il “femminile”, mutevole, soggiogante, oscuro e ambiguo: la bravura di Marianella Bargilli, inquieta e inquietante. Perfetta nel travasare elementi di contrasto di un personaggio nell’alchimia dell’altro. Gli attori, volutamente, si trasformano in una sequenza di personaggi, traghettando, dall’uno all’altro, le caratteristiche comuni, i caratteri più evidentemente condivisi. Rimane, infine, la libertà del racconto. La forza redentrice del relativismo, il sollievo del ridicolo. Narrazione /interpretazione/ esposizione affidata a un “mostro” di tecnica come Pattavina, ma anche al moderno azzardo di un Compagnia giovane ma talentuosissima.